Un
articolo pubblicato da New Scientist ha certamente creato apprensione e suscitato un’accentuata preoccupazione di poter entrare in una nuova fase della pandemia Covid-19.
Due varianti del coronavirus si sono “fuse” in un coronavirus “ibrido” fortemente mutato.
Il
virus ibrido sarebbe il risultato della
ricombinazione della
variante B.1.1.7, altamente trasmissibile scoperta nel Regno Unito e conosciuta come variante inglese, e della
variante B.1.429, che ha avuto origine in California. Quest'ultima sembra responsabile di una recente ondata di casi a Los Angeles, poiché genera una mutazione che la rende resistente ad alcuni anticorpi.
Il virus ibrido è stato scoperto da Bette Korber presso il Los Alamos National Laboratory nel New Mexico. Korber ha comunicato, in un incontro organizzato da New York Academy of Sciences il 2 febbraio, di aver visto prove abbastanza chiare del “nuovo” virus, nel suo database dei genomi virali statunitensi.
Ricombinazione dei virus: come avviene
Il processo tramite il quale si può formare un ibrido si chiama
ricombinazione ed è possibile che accada se
due virus diversi infettano lo stesso ospite nello stesso momento e utilizzano l’apparato molecolare della cellula per replicarsi.
In questi casi per i virus a RNA come i coronavirus, può accadere che l’enzima (rna-polimerasi cellulare) addetto a replicare il genoma di uno dei due virus, si blocchi e si stacchi, legandosi poi ad un’altra molecola di RNA simile ma appartenente all’altro virus, e riprenda a “lavorare” in coda alla copia precedente.
In altre parole, se una cellula ospite contiene
due diversi genomi di coronavirus (come nei casi di coinfezione, in cui le persone esposte a due varianti del virus possono essere infettate da entrambe contemporaneamente), l’enzima può passare ripetutamente dall’uno all’altro, combinando diversi elementi di ciascun genoma per creare, infine, un
ibrido. Si genera una nuova molecola di RNA virale in cui i geni di due virus diversi sono uniti tra loro.
Ricordiamo che già nel mese di giugno, un team di esperti statunitensi aveva supportato l’
ipotesi che il nuovo coronavirus Sars-Cov-2 fosse un ibrido frutto di un “esperimento naturale”. Un coronavirus dei
pipistrelli e uno dei
pangolini avrebbero infettato lo stesso organismo e durante la replicazione del loro genoma, per caso e per errore, pezzi di RNA di origine diversa si sarebbero fusi insieme, generando il conosciuto
SARS-Cov2.
La ricombinazione non è affatto una sorpresa per la comunità scientifica: guardando al futuro dovremmo cominciare ad abituarci a questo tipo di eventi. Man mano che le
varianti del coronavirus emergono e
circolano nelle stesse aree, aumenta anche la possibilità che si sviluppino
virus ibridi.
“Potremmo arrivare al punto in cui accadrà a tassi più elevati”, spiega al New Scientist, Sergei Pond della Temple University in Pennsylvania, sottolineando che sebbene non ci siano ancora prove di una ricombinazione diffusa,
tutti i coronavirus si ricombinano ed “è quindi una questione di quando, non di se”.
Virus ibridi: occorre consapevolezza del problema, non terrore
Un altro
articolo del New Scientist specifica tuttavia che finora Korber ha osservato solo
un singolo genoma ricombinante tra migliaia di sequenze e che sappiamo ancora pochissimo sulla sua biologia: per esempio
non si sa se il virus ibrido possa essere trasmesso da persona a persona o che quello identificato sia già scomparso. Un’altra possibilità potrebbe essere che la
ricombinazione si sia verificata all’interno del campione e non mentre era nel corpo della persona infetta. In questi casi, quindi, si tratterebbe di un risultato accidentale di laboratorio.
Questo particolare ricombinante potrebbe non andare da nessuna parte, ma potrebbe annunciare una nuova fase della pandemia con i ricombinanti che emergono. Guardando al futuro, dobbiamo quindi considerare la possibilità di nuovi ibridi. Potrebbe essere una nuova sfida, che dovremmo affrontare senza però lasciarsi terrorizzare da “altisonanti e terrorizzanti” titoli giornalistici.
Per saperne di più: